Saggio che ho pubblicato nel numero otto di VENEZIA ARTI, 1994, pag. 103.
Si tratta di un approfondimento che ho scritto a seguito della stesura della tesi di laurea Le composizioni violinistiche di Igor Stravinsky – Analisi di un felice connubio autore-esecutore (Samuel Dushkin) come retrospettiva di un percorso musicale.
E’ una sintesi non di solo know-how (musicale e letterario) ma di esperienza di 15 anni di vita, alle volte una intuizione non vale per il tempo che costa comunicarla ma per il percorso che ha condotto un essere umano a viverla.
In realtà il contenuto è filosofico, purtroppo non ho avuto modo di continuare il percorso, la mia vita professionale in questo ambito è terminata con questo scritto, poi sono stato bruciato, ma non tutto il male vien per nuocere: ripartire da zero e trovare nel Web un’altra identità e un modo di rinascere mi consente ora di comunicare con felicità con le nuove generazioni: il Web libera.
L’esergo iniziale è di Eugenio Montale, La casa dei doganieri.
Nel mio testo non è indicato l’autore della citazione iniziale (tanto nota che è triste pensare a incuria o altro da parte mia).
Intendo alludere per analogia al modo in cui Stravinsky cita in modo anamorfico Brahms e altri autori nella composizione esaminata, implicitamente, come cerco di spiegare nel mio saggio.
Qualche correttore di bozze non ha capito e così nell’edizione pubblicata la citazione viene esplicitata.
Ero molto giovane e avevo fiducia nella capacità delle persone di leggere e capire.
La citazione rispondeva anche a mio personale vissuto. Ma questo certo aspetta nuove forme di comunicazione.
"Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana."
L’organizzazione stilistica delle forme musicali, com’è noto, invita a considerare i congiungimenti al tempo vissuto, da una posizione estesica non meno che dal punto di vista del compositore; Michel Imberty ha analizzato gli esiti oppositivi delle “scritture del tempo” in Brahms ed in Debussy, evidenziando come nei compositori presi in esame – su una linea metodologica e di pensiero che deriva da Gisèle Brelet e quindi da Bergson – differenziate siano le elaborazioni stilistiche dei “fantasmi del tempo e della morte”, ovvero come l’integrazione e l’elaborazione del lutto si oppongano alla disintegrazione dell’Io e alla negazione del tempo.
Se lo stile musicale – scrive Imberty – è una rappresentazione simbolica del tempo, il senso di questa rappresentazione si è progressivamente evoluto. […] Brahms ha vissuto i sogni, gli entusiasmi e le paure dell’animo romantico, Debussy anticipa quelli della civiltà contemporanea. Ogni artista, poiché possiede una sensibilità particolare e forte, è testimone al medesimo tempo degli altri e di se stesso. È dunque certo che il tempo musicale di Brahms risente tanto delle rappresentazioni fantasmatiche e mitasmatiche dell’Ottocento, che di rappresentazioni individuali inaccessibili, così come è vero che il tempo musicale di Debussy è segnato da tutti i fantasmi di distruzione e di frantumazione che si possono ritrovare ovunque nell’arte contemporanea.
La meta di Eros è “stabilire unità sempre più vaste e tenerle in vita: unire insieme dunque” (Freud, 1967, p. 8) . La volontà di vivere – o Eros, come diremo qui – regge la rappresentazione musicale di un tempo omogeneo e continuo, di un tempo-divenire che ripete all’infinito le attese, le frustrazioni, le soddisfazioni e l’errare del desiderio. Il tempo romantico è il tempo di Eros.
Al contrario, “l’obiettivo dell’altro istinto è quello di spezzare tutti i rapporti, di distruggere ogni cosa” (Freud, Ibid. ) . L’opera di Debussy inaugura le rappresentazioni stilistiche del tempo contemporaneo, che è il tempo di Thanatos: il divenire è in esso bloccato, frantumato in mille istanti che non durano, alternanze di nascite caotiche e di immobilità ghiacciate. La morte vi si insinua, come una lacerazione che, ad un tratto, precipita la forma più elaborata ai limiti del rumore e del grido. [1]
Un’opera musicale è una proiezione – mediata da codici – dell’autore, di un clima culturale collettivo, dei suoi riverberi spettrali: la convergenza tra il piano poietico ed il piano estesico è resa possibile da riflessioni speculari molteplici, e deformanti, che inducono fenomeni di risonanza emotiva, tensioni e distensioni, diversi sensi di durata, fantasie preconsce e risposte associative, attraversando antinomie emozionali del tempo vissuto.
L’espressività musicale è proprio una rappresentazione simbolica dei vissuti del tempo e della durata, delle loro qualità, e delle minacce o delle promesse che essi rappresentano per il soggetto stesso. In particolare, l’integrazione psichica rappresenta una sorta di punto di equilibrio fra due sentimenti interiori contrari che tradiscono una disorganizzazione progressiva della forza dell’Io […]. [2]
Imberty prosegue la sua indagine chiarificando che i due universi stilistici analizzati implicano diversi procedimenti compositivi, giustapposizione e sovrapposizione per la struttura disintegrata dell’animus contemporaneo, coordinazione e variazione in Brahms, con l’elaborazione di una posizione depressiva attraverso la compresenza degli opposti, unità della vita e della morte: la disintegrazione in Brahms è solo apparente, simboleggia la nostalgia per l’unità originaria; nella musica contemporanea essa è irreversibile, poiché l’Io frantumato nega l’accettazione della morte, quindi il sentimento della durata.
È possibile operare un confronto consimile, quanto a divaricazione delle induzioni di sentimento del tempo, tra Stravinsky e Brahms, approfittando di una ben determinata situazione intratestuale, che il confronto impone per come essa stessa si configura.
Nel Concerto in Re per violino e orchestra di Stravinsky si incontrano citazioni deformate; nel primo movimento, Toccata, due nuclei tematici presentano interessanti analogie con cellule ritmiche o melodiche di altri concerti per violino.
Esempio 1
Stravinsky, Concerto, Batt.35 / Prokofieff, Concerto N.1, Scherzo, Batt.2, ed. B.e H. (Vl. e Pf.).
Stravinsky, Concerto, Batt.86 / Beethoven, Concerto Op.61, Rondò, ed.Peters (vl. e Pf.).
Una ulteriore citazione dal Concerto di Prokofieff è nell’Aria II, precisamente nella sezione poco più mosso (n. 81); l’atmosfera sognante del Concerto è contrastata dalle biscrome puntate dei violini e dei bassi, che si susseguono con alternanza di registro, conferendo un tono cupo e ossessivo a questo episodio.
Nell’Aria II c’è un uso della “fioritura” quale tecnica mimetica: il materiale tematico della prima parte espositiva (nn. 77-78) appare come parodia del secondo episodio (con coincidenza di riferimento tonale) del secondo movimento, Adagio, del Concerto per violino op. 77 di Brahms, con una modalità che propone spunti anelanti negandone presto ogni velleità, insinuando così un clima di sofferta nostalgia mai appagata ed anzi fustigata.
Esempio 2
Incipit Aria II / Brahms, Concerto, Adagio, Batt.52, ed.Schott (Vl.e Pf.).
Nell’Aria I una citazione dal primo episodio dell’Adagio brahmsiano diviene fondante dell’intero movimento, ed è qui in particolare che la giustapposizione di elementi discordanti propone insieme i due diametralmente opposti sentimenti del tempo cui sopra si accennava, citando Imberty.
Esempio 3
Incipit Aria I / Brahms, Concerto, Adagio, Batt.32.
Vorrei ora riportare alcuni passi da Le Temps Musical di Gisèle Brelet, sulla diversità di pittura e musica, tenendo presente un correlativo pittorico (uno dei possibili) di questa coesistenza paradossale di forme del passato e del presente, Interno metafisico con paesaggio romantico di Giorgio De Chirico.
A l'inverse du temps de la peinture, secret et discret, le temps de la musique est contraignant et dominateur: il pénètre en nous avec violence, fait taire notre durée propre ou plutôt la force à l'accompagner, à se régler sur lui; ce n'est plus le temps fantaisiste de l'oeuvre picturale dont la lenteur ou la rapidité est complètement indéterminée: l'oeuvre musicale contient en soi son temps propre, le tempo, qui donne l'existence à son être et à sa forme et hors duquel ils ne sauraient vivre.
Le tableau ne peut en réalité contraindre le regard à accomplir un certain trajet: toujours il nous est possible de nous évader de la mélodie picturale, tandis que la mélodie musicale nous enchaîne à son déroulement et à l'exacte vitesse de ce déroulement.
La forme, par cela même qu'elle est temporelle, use d'une symétrie qui n'est plus la symétrie proprement spatiale. Comme l'écrit Pius Servien: "Une musique entendue (et non pas musique pour les yeux, musique sur le papier) se déroulera dans la durée et c'est dans la durée qu'elle obéira au principe de Curie. Les symétries qu'il permet de prévoir, projetées dans l'espace, y apparaîtront déformées. On rencontre bien, en musique, de la musique pour les yeux, de la musique réellement spatiale: elle se traduit en thèmes suivis de leur symétrique rigoureux, le renversement du thème; en fugues suivies de leur image exacte dans un miroir: l'inversione della fuga , etc. Mais dans la musique qui oublie le papier écrit (on dirait parfois: les réussites d'école), dans la musique qui suit un ample mouvement intérieur, l'image dans un miroir apparaît déformée et contractée, si l'on regarde ce miroir selon l'espace. [...]. "[Pius Servien. Les Rythmes comme introduction physique à l'esthétique, p. 44, cf. aussi p. 53 (Boivin, Paris , 1930) ].
Voyez encore le retour du thème: ce retour n'est pas seulement répétition formelle, mais comme le surgissement de l'essence pure du souvenir, avec ses résonances sentimentales, le recueillement de l'âme sur le passé et toute la poésie de ce recueillement; et c'est aussi une attente comblée, la joie de retrouver ce personnage musical déjà obscurément regretté, de le mieux comprendre et de le mieux aimer. Le thème qui revient et qu'on attendait, c'est en soi, le même thème, mais ce n'est plus le même thème pour nous; une durée s'est écoulée entre ses deux apparitions successives, pendant laquelle nous l'avons attendu et espéré, et il y a comme un charme métaphysique à le savoir semblable et à le sentir différent, à voir se refléter en ses deux visages l'écoulement irréversible du fleuve intérieur. Quant aux discontinuités et ruptures de la forme, leur sens ne réside-t-il pas en ce qu'elles suscitent en nous cette angoisse qui est liée à la possibilité pure, en ce qu'elles nous donnent comme l'expérience du néant, en ce qu'elles évoquent ces changements violents où la vie prend un autre sens, ou encore ce retour au possible d'une activité qui se délivre de son passé et voit s'ouvrir avec joie devant elle l'horizon d'un avenir neuf? Ainsi ces résonances sentimentales des ruptures formelles de la musique, c'est le temps même, par delà ces ruptures, qui les provoque en nous, un temps qui y exprime son essence même, cette perpétuelle oscillation entre l'être et le néant, ce perpétuel passage de la possibilité à l'être, ce perpétuel retour au possible qui la définissent.
Et l'on saisit ici que l'objet de la musique est bien le temps même, le temps sensible à l'âme, vécu dans sa vive réalité... [3]
Questi fondamenti concettuali intorno all’opposizione di tempo ontologico e di tempo psicologico in musica sono definiti in altro modo e con diversi riferimenti da Ernst Cassirer, in una analisi generale delle forme simboliche.
Il merito della metafisica bergsoniana resta quello di avere invertito il rapporto di dipendenza che l’antica ontologia ammetteva fra la sfera dell’essere e la sfera del tempo. Non già l’immagine del tempo deve essere formata e modellata secondo un concetto dogmaticamente statico dell’essere, ma il contenuto della realtà e quello della verità metafisica deve essere determinato secondo la pura intuizione del tempo. […] Materia e memoria formano i due pilastri, i due poli della metafisica di Bergson. Come l’antica metafisica tracciava una netta linea di separazione fra la sostanza estesa e la sostanza pensante, fra anima e corpo, così nel sistema bergsoniano il campo della memoria è distinto da quello della materia. […]Vi è una memoria puramente motoria, la quale consiste soltanto in una successione di movimenti appresi con l’esercizio, ed è quindi nient’altro che una forma di abitudine. Ma da questa specie di memoria motoria, da questa specie di meccanismo e di automatismo è rigorosamente e fondamentalmente distinta la pura memoria spirituale. Con essa infatti non ci troviamo più nel regno della necessità, ma nel regno della libertà: non più nell’ambito e sotto il dominio delle cose, ma al centro dell’io, della pura autocoscienza. Il vero io non è quello che si volge all’esterno e agisce verso l’esterno, ma è quello che nel ricordo è capace di guardare indietro nel tempo e di ritrovarsi nella profondità di esso. Questo sguardo profondo nel tempo ci si apre per la prima volta, quando in luogo dell’azione sottentra la intuizione pura, quando il nostro presente si compenetra con il passato ed entrambi vengono vissuti come unità immediata.[4]
Torniamo ad una lettura diretta della partitura: l’Aria I è composta da cinque sezioni , tutte basate su una sola unità motivica, elaborata organicamente in modo da costituire un tessuto policromatico che in realtà è un infingimento: la varietà nasconde una somiglianza diffusa che costantemente rimanda all’idea iniziale, consentendo di uniformare il materiale musicale in una perfetta coerenza formale e con un movimento interno irrefrenabile, pur nell’assenza d’ogni tradizionale sviluppo.
Protagonista di questo movimento è insomma la ripetizione sub specie variationis; l’idea generativa, un arco melodico discendente-ascendente che il violino solista espone inizialmente due volte con due tipologie ritmiche oppositive, è una citazione deformata del primo episodio del secondo movimento del Concerto in Re per violino di Brahms (si veda l’esempio 3) . È proprio questo arco, scisso nelle due parti simmetriche, ad essere ripetuto, configurando in somma e per contrasto semantico oppositivo una metafora dell’ansia, nel senso proprio psicologico di stato di costante oppressione e preoccupazione, con ripetizione coatta di movimenti ed azioni, finalizzata a esorcizzare l’avvicinamento ad una realtà futura sentita come esiziale.
L’Aria I inizia come Invenzione a due voci (violino e violoncello) , sobillata da episodici impulsi metrici di semicrome “spiccate” affidati agli archi. A partire dalle tre battute che precedono il numero di partitura 55 vi è un dialogo tra i flauti e il violino solista. Alla terza battuta dopo il numero 55 il violino introduce un disegno ad arabesco che allude, ancora una volta, a un episodio del terzo movimento del Concerto per violino N.1 di Prokofieff. Al numero 59 c’è un passaggio sincopato segnato dolce tranquillo (seconda sezione), che conduce alla terza sezione: più mosso (n. 62) . Nella seconda sezione si incontra la linea discendente dell’arco melodico generativo, nella terza sezione la linea ascendente (linee indicate nell’esempio 4 mediante vettori dinamici) ; c’è una opposizione anche nei caratteri ritmici: la seconda sezione ha un andamento lento e cullante – quasi una sospensione dell’impulso motorio – , la terza sezione impone con il fagotto ed il clarinetto un flusso di crome che focalizza il ritmo puntato della linea melodica ascendente.
Esempio 4
Stravinsky, nn. 59-63
Al numero 65 si incontra un momento aggregante (quarta sezione) che riunisce tutti gli elementi finora esperiti, con il controcanto del violino solista, un ostinato ritmico, che vagheggia rudemente lo stile violinistico bachiano della Fuga della Sonata III per violino solo BWV 1005.
Esempio 5
Stravinsky, n. 65 / Bach, Sonata III, Fuga, Batt.188, ed. Bärenreiter.
Dopo un accordo di insieme (n. 69) , il violino rimane isolato e riprende il disegno di filigrana che nella Toccata arricchiva il Tutti orchestrale.
La quinta sezione (n. 72) è una ripresa della prima sezione, non modificata, interrotta al numero 75 dalla ripetizione della linea melodica discendente quale introduzione alla clausola conclusiva.
Da questa analisi emerge come una poetica romantica e la sua rivalutazione, sia in modo nostalgico di una perduta espressività della musica sia per la sorgiva freschezza dell’ispirazione, costituisce ciò che viene celato, mentre la ripetizione diviene insieme uno degli espedienti di occultamento e metafora di una condizione collettiva ansiosa che impedisce dall’esterno una fruizione ingenua nel presente della melodia brahmsiana celata appunto per anamorfosi, ovverosia con una modalità che costringe chi ascolta con interesse a conquistare l’immagine reale mettendosi a guardarla – ad ascoltarla, sinestesia invisibile – da un particolare scomodo ed inusuale punto di vista.
Schema esemplificativo dell’anamorfosi musicale:
Anamorfica è una immagine che se guardata oggettivamente appare distorta, e le deformazioni divengono significative qualora l’immagine sia osservata soggettivamente, da un preciso punto di vista o se riflessa da uno specchio speciale; essa è in effetti una macchina ottica (sonora) capace di una forte azione deformante, consente di evadere ma imponendo il ritorno, attua riflessioni sincroniche che registrano un tempo presentificato, definito ma confuso.
Ogni immagine, anche la più fedele possibile, – scrive Filiberto Menna – è sempre un trompe-l’oeil, un inganno, come lo specchio: l’immagine e lo specchio si danno allora come luoghi del desiderio (i luoghi in cui il desiderio si riconosce) , come tramiti attraverso i quali cerchiamo qualcosa d’altro […]. Qui, l’immagine è anzitutto un luogo di condensazione, un provocatore ottico che mette in movimento i meccanismi associativi della memoria che rigenera il tempo. [5]
Non sarà necessario sia io a ricordare come nel periodo di composizione del Concerto (1931) i diversi contigui problemi della meccanizzazione, della standardizzazione industriale, il superamento della fisica classica in senso quantistico e relativistico, gli sviluppi della psicologia del profondo, costituivano un clima psicologico peculiare, con riflessi in tutte le forme dell’attività artistica.
I mutamenti di stagione influiscono ben poco sugli abitanti della città – osserva Aldous Huxley – : abitanti di un universo artificiale che una gran barriera separa quasi completamente dal mondo della natura. Fuori di questa barriera, il tempo è cosmico e muove secondo i moti del sole e delle stelle. Al di qua di essa, non è che un girar di ruote, scandito in secondi e minuti – al massimo in giornate di otto ore e settimane di sei giorni. Abbiamo una coscienza nuova; ma è stata acquistata a spese della coscienza antica. [6]
Per Franz Marc, scopo dell’artista era “rivelare la vita spirituale che germoglia dietro le cose, infrangere lo specchio della vita, così che sia possibile guardare la realtà in faccia”. Diffusa era l’esigenza di conservare il contatto con il cuore della vita e delle cose, la loro dimensione immutabile, la certezza interiore, esigenza in sintesi mercuriale (scorgere simboli dello spirito dietro le apparenze naturali, ossia costruire forme sì astratte e geometriche ma dotate di un’eco interiore: “si tratta – scrive Kandinskij – di una entità spirituale con effetti che coincidono in pieno con quelli della forma”) . Auden , in The Age of Anxiety, indica un riferimento assimilabile a questo stravinskiano, che allude ad una interiore dissociazione, metonimia della stagione arida di Gerontion e della congerie di relitti naufragati in The Waste Land di T. S. Eliot, ove miti e reami dorati delle epoche trascorse vagano in regioni perdute, seminando lamenti – in vece del canto – in radure non visitate dalla Primavera ma simmetricamente definite, intellettivamente calcolate, per dire il caos con imperturbabile lucidità di coscienza.
Quanto viene nascosto nell’Aria I è un simbolo tipicamente ineffabile, magico, suggestivo, nostalgico del romanticismo musicale; proprio perché celato, la sua forza significativa ed espressiva è potenziata (“Heard melodies are sweet, but those unheard/Are sweeter…“) nel momento in cui la citazione coinvolge empaticamente l’inconscio dell’ascoltatore.
Ascoltando questo movimento si vive una condizione di insicurezza percettiva, uno stato d’animo simile forse a quello di Anselmo, nel Vaso d’oro di Hoffmann, allorché passa dalla luce magica abbagliante, dai dolci aromi del giardino fatato delle amarillidi fiammanti e dalla biblioteca azzurra – dov’era confortato da Serpentina – alla prosaica stanza dove aveva fatto colazione: “”Chissà dove si va a finire?” disse fra sé. “Ma se anche sono preda di un incantesimo o di una follia, nel mio cuore vive la dolce Serpentina […]”. ”
Per dare un’idea, via similitudinis, di come nell’ascolto la melodia di Brahms si imponga alla memoria similmente ad un frangente che ripullula, vorrei correlarla ad uno dei cani alati della litografia di Escher (Specchio magico, 1946).
Lo specchio (l’esperienza di ascolto) rende tridimensionale e dà forma alla scrittura (si veda la piccola ala, reale e riflessa), nei due aspetti di immagine reale e di immagine riflessa, la quale comincia a vivere e a seguitare la sua esistenza in un’altra realtà; solo la sfasatura delle due sfere (due universi distinti) tradisce l’inganno dell’immagine riflessa, quindi insinua il dubbio insolubile che l’immagine sonora riflessa sia, ovvero non sia, coincidente con quella reale al di là dello specchio.
Se la melodia citata è fluente (nella forma originaria), capace di integrare le ambivalenze di senso in un tempo che ritorna su di sé, che ‘dura’ in una progressione emotiva, la macrostruttura che Stravinsky edifica su questa base è discontinua , organizzata ma dissimmetrica e angosciosa: il tempo è frantumato, diviene puntiforme, non ha una durata e non ritorna su di sé.
L’originalità della struttura del movimento in esame mi sembra consista quindi nel fatto che i rapporti significante/significato della macrostruttura e della microstruttura sono intrinsecamente incompatibili, ovvero l’Aria I si presenta come imitazione o esatta descrizione di una scissione attiva, al momento della sua ideazione, nell’inconscio collettivo. La comprensione dell’origine della melodia costringe un ipotetico ascoltatore del 1931 alla coscienza della posizione esistenziale che impone lo spirito del tempo.
Il problema della negazione del tempo (e della morte), denunciato in musica dalla sostituzione dello sviluppo temporale con uno spazio timbrico di suoni irrelati, con effetti di eco – proiezioni di segmenti dell’Io scisso – , è presente in tutte le forme d’arte negli Anni ’20 e ’30. Qui è sufficiente ricordare uno degli ultimi paragrafi di Punto contro Punto, di Huxley.
Spandrell se ne andò a piedi lemme lemme allontanandosi da Chelsea e procedendo lungo il fiume, fischiettando e rifischiettando le frasi di apertura della melodia dell’Heilige Dankgesang. Le ripeté parecchie volte. Il fiume scorreva in una calda foschia. La musica era come l’acqua in una terra riarsa. Dopo tanti anni di siccità, una sorgente, una fontana. Un autocarro del lavaggio stradale passò rombando, trascinandosi appresso il suo acquazzone artificiale. Salì un odore di terra bagnata. Quella musica era una prova, come lui aveva detto a Rampion. Nel rigagnolo, il piccolo corso d’acqua sospingeva verso la fogna una scatola sgualcita di sigarette e un pezzo di buccia d’arancia. Smise di fischiare. L’orrore essenziale. Come trasportare dell’immondizia: ecco ciò ch’era stato. Appunto, nauseabondo e spiacevole come la pulizia di una latrina. Non tanto terribile, quanto stupido, indescrivibilmente stupido. La musica era una prova. Dio esisteva. Ma soltanto finché suonavano i violini. Quando gli archetti si staccavano dalle corde, cosa restava? Immondizia e stupidità, la siccità spietata. [7]
[1] MICHEL IMBERTY, Le scritture del tempo-Semantica psicologica della musica, trad. di D. Zazzi, Milano, Unicopli 1990, pp. 196,242 -243.
[2] IMBERTY, Le scritture del tempo, cit., p.36.
[3] GISÈLE BRELET, Le temps musical-Essai d’une esthétique nouvelle de la musique, I, Paris, Presses Universitaires de France 1949, pp.7-8,11,15-16,17.
[4] ERNST CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, III: Fenomenologia della conoscenza, trad. di E. Arnaud, Firenze, La Nuova Italia 1966, pp.246-248.
[5] AA.VV., Anamorfosi: evasione e ritorno, Roma, Officina Edizioni 1981, p.48.
[6] ALDOUS HUXLEY, L’albero d’olivo, trad. di A. Prospero, Bari, Laterza 1939, p.60.
[7] ALDOUS HUXLEY, Punto contro Punto, trad. di S. Spaventa Filippi, Milano, Bompiani 1980, p.463.